di Carmen Moscariello
Leggendo l’opera poetica di Leone D’Ambrosio, batte nel
cuore la voce della Callas che canta “Che
farò senza Euridice”, fiati di nostalgia struggente che avvolgono ogni
alba, ogni domani.
La tunica di fuoco del Poeta rende inimmaginabile, quanto
la morte, appartenga alla vita. Infatti, in questo testo fascinoso, non c’è
solo una Poesia in memoria, il messaggio è ben più grande.
Si apre a ventaglio, come se nessuno spazio bastasse, per
una consegna d’affetti che ha suoni gutturali, placati da una forza misteriosa
che avanza in silenzio; un passo
d’addio intessuto di crepuscoli, di una natura contadina che col suo richiamo
al quotidiano riporta di nuovo ordine, ricompone ciò che la morte voleva
frantumare. La presenza di Dio è consapevolezza di una promessa sicura, è la
corsa del tempo per ritrovarsi per mano. Pur se la fede non è mai apertamente
dichiarata, rimane la tela filata che congiunge il primo all’ultimo verso.
La poesia di Leone D’ambrosio ha temperamento, sgorga
come olio da un frantoio a goccia a goccia, mentre la formidabile concretezza
del linguaggio crea muri di pietra che consolidano speranze, pietre di sogno che
proteggono dalla rovinosa tempesta.
Nei suoi versi si avverte una consacrazione del pane
all’altare, mentre si circoscrive un altrove
dominato da un unico stilema: La
devozione per il padre che come letto di un fiume abbraccia la casa e la
famiglia.
Devozione che comprende anche la malattia, cucita alla
sofferenza, intessuta di pareti bianche, di canti di rondinelle, dove il freddo è lodato e la luce neutra non ha voce
per interrogarsi sul perché un uomo muore.
La grandezza del Poeta è nella bellezza trasfigurante del
dolore e della malattia, trasformando così il nero della morte in canto. Come
Orfeo, nelle notti illune Egli
compone per lodare il freddo e la vita
per poter morire senza timore. L’alto brulicare del tempo senza storia, si
allunga infinito, spazia in galassie sconosciute alla ricerca di Dio che
congiunge, non lacera. Quella notte chiara dà ai versi compostezza; le finestre
in attesa, statiche si aprono su un nuovo mondo, tracciano un nuovo incontro.
Dalla
rupe furono gettati i tormenti, da seppellire sotto erba leggera, ma quante
lacrime per farla leggera e levigare il passo d’addio.
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