sabato 4 agosto 2012

Saggi critici "David Maria Turoldo"

di Carmen Moscariello

Quasi un testamento, i Canti ultimi di David Maria Turoldo non hanno interrotto il colloquio intenso e inquieto del Salmista con il suo interlocutore preferito.
Nei versi Dio è inseguito e amato, penetra ogni respiro, eclissando talvolta nel Nulla, per riaffiorare più forte nella speranza e nella instancabile ricerca.
Sapere, conoscere, indagare, scoprire il divino nella delicatezza dei fiori, nella voce dei fiumi, nel silenzio dell’anima è per il “servo di Maria” (Padre David appartenne alla congregazione dei Servi di Maria e più tardi fondò insieme a Padre Camillo de Diaz “La Corsia dei Servi”) fine principale della sua poesia e dell’impegno sociale e religioso che animò la sua esistenza.
La precisa essenzialità del verso racchiude la realizzazione catartica del Bene in quella “vita che non finisce mai” (Ultima Omelia di Padre David) e come un fiume si congiunge pur sempre al mare. A partire dalle sue prime pubblicazioni da Una casa di fango (1951), Tempo dello spirito (1966) e più tardi Il diavolo sul pennacolo (1968), fino a O sensi miei (1990), opera che racchiude il meglio delle sue poesie, si coglie un misticismo che ha dello sconvolgente, in quanto conserva in sé una tempesta d’amore che invade ogni cosa al suo contatto e in contemporanea una temerarietà di ricerca, un tormentato porsi del suo Essere di fronte al mondo e alla Deità.
Padre David, negli ultimi due anni di vita (1990-1992), nonostante il suo corpo fosse divorato dal cancro, ha donato alla poesia una scrittura escatologica che è emersa chiara, quasi un miracolo, nelle sue due ultime pubblicazioni: Anche Dio è infelice e Canti ultimi.
Quest’ultima opera è un testamento di fede e di vita partecipata: le due voci senza contrapporsi generano un’ansiosa purificata sofferenza, un dilagare del Nulla, che non riveste più i segni del “Dio Negativo”, ma il semplice scorrere del verso che permette il coinvolgimento non solo degli addetti ai lavori, ma “in primo luogo alla sete di anime disposte a trarne illuminazione e conforto. Per questo possiamo dire che la sua opera sia destinata oggettivamente a un pubblico assai più vasto che il pur eletto pubblico della poesia” (Giovanni Giudici, prefazione a Canti ultimi).
Così la densità dell’amore è attraversata da un’inquietudine vogliosa di abbracciare il suo Dio: “…da tutta una vita:/ solo silenzio/ e ancora di più/ a cercar di immaginarlo/ per dispormi/ all’atteso incontro” (così da tutta una vita pag.64)
Il tono pacato diaristico dei versi non attenua la bramosia di Dio: il lettore se ne sente partecipe, quasi nutrito da un cordone ombelicale, senza che la paura per l’oceano nero del Nulla scompaia: “Non un nome non un volto/ gli conviene; e il salmista/ si strazia e grida “mostrami il tuo volto/ il tuo volto io cerco signore” (E lui che incombe pag 62).
Ma non solo il cuore del Santo delira la deità, anche il corpo s’inebria nella ricerca di Dio. Questi Canti di congedo dal mondo determinano una prospettiva nuova che il poeta, il saggista, il commentatore di testi sacri Turoldo consegna temporaneamente al lettore e al suo Dio.
Il salmista “sopra il tumulto mentale” canta con il fervore dei grandi mistici, ma il canto e troppo spesso rotto da singhiozzi e il dolore si fa così grande che investe anche il divino: “Tu non sei quello che noi crediamo: insieme, Tu e noi infelici, (Salmodia prima, pag 67).
E a questo punto è giusto chiedersi “…se l’angelo di questa appassionata teomachia turoldiana sia veramente l’alata presenza del Divino o al contrario e in definitiva l’inquietante (e il meno che si possa dire) aleggiare del Nulla” (Luciano Erba, in Poesia, Crocetti, marzo 1992, pag 61).
L’interrogativo si fa più interessante nel poemetto eretico Prorsus et versus (Canti ultimi, pag 67), che in un misto di prosa e versi pone l’accento sul terrestre spirito euclideo, nel disperato sforzo di rigenerare il creato “dal Caos al mondo delle forme”.

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